Barrea è un antico borgo medievale di circa 750 abitanti (barreani) situato a 1.060 m di altitudine su uno sperone roccioso dal quale si gode uno dei più bei panorami sull'alta vallata del fiume Sangro, con in primo piano il suggestivo lago artificiale di Barrea coronato dai più alti monti del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise. Lago formatosi nel 1951 dallo sbarramento del fiume Sangro con la costruzione di una diga che ne ha ostacolato il deflusso verso le spettacolari gole de “La Foce”.
L'etimologia del nome Barrea (il nome Barreiam è documentato nel 1.150 - 1.165) richiamerebbe una base prelatina “barr” che potrebbe significare “burrone” o “dirupo”. Con il nome latino "Vallis Regia" (nome attestato nel 1.320), invece, si faceva riferimento al comprensorio del lago di Barrea formato dal borgo omonimo nonché da quelli di Villetta Barrea e Civitella Alfedena. Territorio che si ritiene possa essere stato abitato già in epoca preistorica come testimonia il ritrovamento di antiche necropoli, una delle quali in località Colle Ciglio sulla sponda occidentale del lago. Il borgo, anticamente protetto da una muraglia con due sole porte di accesso (porta di sopra e porta di sotto) e due torrioni difensivi (Torre Quadrata e Torre Rotonda) ha sempre avuto una ricca industria armentizia favorita dai vastissimi pascoli delle montagne circostanti. Nelle vicinanze del lago transita l’antico tratturo che, proveniente da Pescasseroli, conduceva le greggi e i pastori fino a Candela nelle puglie. Il territorio di Barrea è un autentico paradiso caratterizzato da montagne, boschi rigogliosi, fiumi, torrenti, laghi, e rare specie faunistiche come il Camoscio d'Abruzzo, l'Orso bruno Marsicano, il Lupo Appenninico, il Cervo Nobile, il Capriolo e l'Aquila reale. Dal paese partono numerosi percorsi naturalistici, di varia difficoltà, che permettono al turista di visitare uno degli angoli più belli del Parco Nazionale più antico d'Italia. © Ercole Di Berardino - esploramonti.it - All rights reserved E' vietata la riproduzione di testi ed immagini senza l'autorizzazione scritta da parte dell'autore.
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LA LEGGENDA DELLA GIGANTESCA MAIA
Il Gran Sasso d’ Italia e la Maiella, con le loro bellezze imponenti e maestose, da sempre sono stati il simbolo e il riferimento dell’intero Abruzzo. Questi attraenti sistemi montuosi sono avvolti da una miriade infinita di miti, leggende e misteri, scavati nell’abisso del tempo e legati, assai spesso, a tradizioni, riti e culti pagani. La “Maiella Madre”, la montagna materna degli abruzzesi, custode di paesaggi maestosi di rara bellezza, è stata culla di civiltà e culture antichissime, di cui restano ancora oggi innumerevoli vestigia e testimonianze; assai incerta, però, è l’origine del nome. Assai suggestiva è la relazione etimologica di natura popolare legata al culto della dea Maia. Secondo questa derivazione, coerente alla primordiale sacralità dei monti, la Maiella, con i suoi meandri magici e misteriosi, è la montagna sacra a Maia. Nel mito e nelle leggende del popolo indiano la dea Maja simboleggiava il principio creatore e la virtù produttiva. La mitologia classica ci fa anche sapere che la gigantesca Maia, fiorente fanciulla dalle stupende trecce bionde, era la maggiore e la più bella delle sette Pleiadi, figlie di Atlante e di Pleione, figlia, quest’ultima, di Oceano. Maia fu amata da Zeus in una grotta del monte Cillene in Arcadia e da questa relazione nacque Ermete, unico figlio della dea. Fra le tante leggende, che legano la Maiella al culto della dea Maia la più toccante è quella che racconta che la gigantesca Maia fuggì dalla Frigia, per portare in salvo l’unico figlio, un gigante stupendo, ferito gravemente in una battaglia e inseguito dal nemico. Con una zattera sdrucita attraversò il mare e riuscì ad approdare nei pressi del porto dell’antica città di Ortona - “Orton”- dopo un tragico naufragio. Qui, temendo di essere raggiunta dagli inseguitori, prese in braccio il gigante ferito e continuò la sua fuga attraverso forre selvagge ed impervie giogaie, scalando il Gran Sasso, dove una caverna, nell’aspra roccia, offrì un rifugio ai due fuggitivi. Nell’antro rupestre la diva Maia cercò, e sperò, di mantenere in vita l’adorato figliuolo con il suo amore materno, ma dopo qualche tempo il giovane morì lasciando la ninfa in un’angoscia infinita. Per vari giorni pianse disperatamente accanto al corpo del figlio e, successivamente, lo seppellì su una vetta del monte superbo. Ancora oggi, a chiunque osservi il Gran Sasso, da levante verso ponente, appare chiaramente la sepoltura del giovane: infatti, la Vetta Orientale del Corno Grande, in uno scenario maestoso e incantevole, incarna le sembianze di un gigantesco volto umano assopito nel riposo eterno; conosciuto sin dall’antichità come “Il gigante che dorme”, il “ciclope di pietra” si staglia nel cielo, nel superbo dominio di un paesaggio grandioso. In virtù di un magico incanto, in un seducente miracolo della natura, il “gigante di pietra”, osservato da un’angolazione leggermente diversa, si trasforma in una leggiadra e prosperosa fanciulla supina dalle chiome fluenti, chiamata, oggi, “la bella addormentata” e dagli antichi “ la bella dormiente”. Nei silenzi magici e divini delle aeree cime del Gran Sasso, l’ ”Olimpo d’Abruzzo”, in uno scenario grandioso e fantastico, la ninfa Maia e l’adorato figlio si “fondono” in uno straordinario connubio affascinante e suggestivo, di colossale magnificenza; senza più distinguersi, realtà e fantasia si amalgamano in una simbiosi incantevole che non ha eguali altrove. Dopo la morte del gigante, Maia non ebbe più pace. Sconvolta, in preda alla disperazione, cominciò a vagare sui monti e neanche i suoi congiunti più cari riuscirono a frenarne il pianto disperato. Le stille di rugiada e i cristalli di brina, che, copiosi, rivestono d’argento e di luce i morbidi prati dei nostri monti, nell’immaginazione popolare non rappresentano altro che le lacrime versate dalla ninfa. Il cordoglio e l’angoscia furono talmente grandi, da stringere il cuore della povera madre, fino a farla morire. I fedeli e i parenti della dea, con cortei imponenti, raggiunsero Maia sull’erta giogaia, portando vesti ricche di ori e di gemme, ghirlande di fiori e di erbe aromatiche, vasi d’oro e d’argento, e, dopo averla adornata con i loro preziosissimi doni, la seppellirono sulla maestosa montagna di fronte al Gran Sasso, che, da quel giorno, in sua memoria, fu chiamata Maiella. Il nome “Monte Amaro”, dato alla cima più alta, sembra voler dare risalto al dolore di Maia, a testimonianza di un affetto e di un amore senza confini. La ricchissima flora della Maiella, con il tripudio dei fiori dai mille colori, rappresenta il prezioso tesoro funebre della diva stupenda. Nell’immensa giogaia maiellana, la struttura orografica di “Cima delle Murelle”, osservata dal Monte Acquaviva, si tramuta nel volto disfatto di una donna distrutta, supina. L’aspetto selvaggio e severo del paesaggio, “improntato d’una calma tristezza”, risulta grandioso, suggestivo e pittoresco. Il lago di “Femmina morta” e l’omonima valle, poco distanti dalla vetta della superba montagna non possono non ricordare la dolorosa vicenda materna della gigantesca ninfa. Ancora oggi il fragore delle valanghe nei burroni, lo scroscio delle cascate negli orridi, il frastuono delle frane negli abissi, la furia della tempesta turbinosa, l’ululato del vento ed il fremito dei boschi e delle foreste evocano nell’immaginazione popolare i lamenti della diva Maia, che geme disperata per la morte immatura dell’unico figlio. Tratto da "La leggenda della gigantesca Maia. Fra miti, realtà, misteri e magie, il volto umano del Gran Sasso e della Maiella", di Camillo Berardi. Su un pianoro sopra l’altopiano di Navelli, attraversato dalla Via Claudia Nova, che congiungeva la Salaria con la Valeria, tra la Valle dell’Aterno e quella del Tirino, sorgeva la città di Peltuinum, abitata dapprima dai Vestini ed in seguito occupata e ricostruita dai Romani tra il I secolo a.c. e il I secolo d.c.
Della città si conservano attualmente i resti dei bastioni e di lunghi tratti della cinta muraria, il Foro, dominato da un grande Tempio dedicato ad Apollo, e il Teatro augusteo costruito in parte sfruttando il pendio della collina ed in parte in elevato. La città di Peltuinum ebbe anche un importantissimo ruolo strategico, sia economico che politico, nel controllo dei traffici commerciali legati ai percorsi della transumanza. L’altopiano infatti era attraversato dal regio tratturo che collega l'Abruzzo con la Puglia. La vita della città terminò nel IV sec., probabilmente a causa di un forte terremoto. Alla fase di abbandono della città seguì un'attività di spoliazione del materiale edilizio riutilizzati nei castelli e nelle chiese della vallata per costruire capitelli, colonne e decorazioni architettoniche. Il sito di Peltuinum è oggi compreso nel territorio dei comuni di Prata d'Ansidonia e San Pio delle Camere in uno scenario montano di grande bellezza, incorniciato a nord dal massiccio del Gran Sasso e a sud dal gruppo montuoso del Sirente-Velino. Come arrivare: Autostrada A24-A25 Roma-Pescara. Uscire al casello autostradale di Bussi. Proseguire per L'Aquila. Oltrepassato il bivio per San Pio delle Camere proseguire ancora per altri 2,5 km e, non al primo, ma al secondo bivio per Castelnuovo (indicazioni turistiche per Peltuinum) girare a sinistra. Dopo 2 km, a sinistra, inizia una strada sterrata (indicazioni) che in circa 200 m raggiunge il sito archeologico. © Ercole Di Berardino - esploramonti.it - All rights reserved E' vietata la riproduzione di testi ed immagini senza l'autorizzazione scritta da parte dell'autore. |
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Gennaio 2021
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