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Gli zampognari d'Abruzzo

12/1/2021

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Quando sentiamo parlare degli zampognari l’immagine che ci viene in mente è quella di un vagabondo, musico di piazza, metà pastore metà mendicante, una sorta di pastore errante che contempla i cieli stellati al suono melodico della sua zampogna.
Ma chi erano gli zampognari, questi artisti per lungo tempo ignorati dalla cultura musicale italiana ma al contrario molto considerati e visti con un alone di leggenda da scrittori, poeti, pittori e musicisti stranieri?

La zampogna è uno strumento musicale a fiato caratterizzato da un otre di pelle pieno d’aria nel quale sono inserite alcune canne. Attraverso una di queste canne, detta insufflatore, il musicista immette il fiato dentro l'otre e attraverso la pressione esercitata con l’avambraccio l’aria viene distribuita in modo costante nelle altre canne da dove l’aria fuoriesce emettendo un suono.
L’uso della zampogna era un tempo molto diffuso in tutto l’Abruzzo ed era strettamente legato alla pastorizia e alla cultura pastorale. Le condizioni dei pastori sono sempre state misere ma chi fra di loro aveva un orecchio musicale, anche se analfabeta, apprendeva dal padre o dal nonno l’arte di suonare la zampogna tramandando così di generazione in generazione un repertorio musicale giunto fino ai giorni nostri. Erano gli stessi pastori a costruire i propri strumenti, avvalendosi delle loro capacità di intagliare il legno e lavorare le pelli. D’altronde le loro misere condizioni economiche, che a mala pena ne garantivano la sopravvivenza, non avrebbero mai premesso loro l’acquisto di uno strumento musicale.
I pastori passavano la maggior parte del loro tempo in totale solitudine sui loro monti e la zampogna rappresentava per loro uno strumento di compagnia inseparabile nel mentre trascorrevano le loro giornate nella vigilanza del gregge.
In inverno, quando la neve aveva ricoperto i monti e i prati, i pastori zampognari si spostavano da un paese all’altro suonando le loro zampogne in occasione di feste e mercati per racimolare qualche soldo. Molti di loro, nel periodo natalizio, si spingevano fino alle grandi città come Roma e Napoli per suonare la novena di Natale alla Madonna cogliendo così l’opportunità di integrare le magre entrate con offerte in denaro o in natura.
A metà Ottocento, con il crollo della pastorizia a seguito della soppressione delle leggi che imponevano il pascolo forzato sul Tavoliere delle Puglie, iniziò di fatto il declino delle antiche tradizioni musicali legate alla zampogna, che subirono poi un altro durissimo colpo per effetto delle misure militari di sicurezza e di ordine pubblico successive all’Unità d’Italia e legate al contrasto del brigantaggio. Agli zampognari, infatti, venne vietato l’accesso a Roma, per il rischio che tra di loro potessero nascondersi i briganti.
Entrata in crisi l’economia pastorale Abruzzese, i pastori e gli zampognari furono costretti ad emigrare lasciando i loro paesi. Un vero e proprio esodo, che ha decimato le aree interne.
 
Tra il ‘700 e l’800 molti giovani pittori, scrittori, musicisti, provenienti dall’aristocrazia europea si misero in viaggio verso l’Italia dando vita a quel fenomeno che prese il nome di Gran Tour d’Italia. I viaggiatori del Grand Tour venivano in Italia attratti dalle testimonianze storiche del nostro paese, dall’arte, dai paesaggi e dallo stile di vita, privilegiando soprattutto le più importanti città come Roma, Venezia, Firenze e Napoli. Nei loro soggiorni a Roma questi viaggiatori furono particolarmente incuriositi dai cosiddetti “pifferai” abruzzesi (come venivano chiamati a Roma gli zampognari) e molti di essi ne rimasero talmente affascinati da decidere di avventurarsi verso l’Abruzzo, nonostante in quei tempi la nostra regione venisse dai più descritta come terra aspra, con montagne selvagge e pericolosa per la presenza di briganti.
Tra i tantissimi scritti lasciati da questi viaggiatori per raccontare la loro avventura in Italia, molto bella è la testimonianza del compositore francese Hector Louis Berlioz che, nelle sue memorie di viaggio, parlando degli zampognari scrisse: "Ho notato solamente a Roma una musica strumentale popolare che tendo a definire come un resto dell'antichità: parlo dei pifferari. Si chiamano così i musicisti ambulanti che, in prossimità del Natale, scendono dalle montagne […] e, armati di zampogne e pifferi, eseguono dei pii concerti davanti le immagini della Madonna. Solitamente sono coperti da ampi mantelli di drappo scuro e portano un cappello a punta come quello indossato dai briganti […]. Ho trascorso delle ore intere a contemplarli nelle strade di Roma […] Ho sentito in seguito i pifferari direttamente nelle loro terre e, se li avevo trovati così notevoli a Roma, l'emozione che ho ricevuto fu molto più viva nelle montagne selvagge dell'Abruzzo, dove il mio umore vagabondo mi aveva condotto".
 
Oggi l'impiego della zampogna in ambito rurale (per processioni, rituali, feste e balli) è ancora praticato in Abruzzo. In ambiente urbano la zampogna viene associata immediatamente al Natale, perché ancora oggi nei grandi centri urbani nel periodo natalizio, capita di vedere alcuni zampognari che dalla montagna scendono in città e percorrendo le vie cittadine in abiti tipici suonano con le loro zampogne motivi natalizi tradizionali per ricevere offerte dai passanti. Generalmente gli zampognari suonano in coppia, uno la zampogna vera e propria ed un altro la ciaramella. Probabilmente tutti conoscono “Tu scendi dalle stelle”, il canto natalizio per eccellenza, in pochi però sapranno che l’autore, S. Alfonso Maria de Liguori, scrisse il testo di questa canzone (in realtà una preghiera!) adattandolo alle melodie che facevano parte del repertorio degli zampognari abruzzesi.
 
Ancora oggi lo zampognaro rappresenta una presenza fissa del presepe dove generalmente trova posto nelle immediate vicinanze della "capanna" o "grotta" della Sacra Famiglia.

Bibliografia:
- "Zampognari. Mito dell'Abruzzo pastorale" - Antonio Bini - Edizioni Menabò, 2020
-  "Memoires de Hector Berlioz" - H. Berlioz - Calman-Levy, Paris, 1870
- "The  shepherds of Abruzzi" - The Penny Magazine - 23 marzo 1833


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Le miniere di bitume della Majella

24/12/2019

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Ci sono fatti, episodi, luoghi poco conosciuti che il tempo ha portato via alla memoria. Tra questi, c'è una storia che ci parla dei minatori della Majella. Abruzzesi che con sudore e fatica, per oltre cento anni, tra il 1840 e il 1956, senza fare rumore, sotto la montagna, hanno dato una nuova identità a questo bellissimo territorio che non finisce mai di stupire.
Questa storia, oggi, la possiamo leggere tra le rocce bituminose delle tante miniere della Majella tra i territori di San Valentino, Scafa, Manoppello, Lettomanoppello, Abbateggio, e Roccamorice.
Fu un certo Silvestro Petrini, che per primo, nel 1840, fece la scoperta di alcune miniere di asfalto nelle contrade di Manoppello e San  Valentino. Quattro anni più tardi, nel 1844, nacque la prima attività per l’estrazione di bitume e la trasformazione in petrolio.
Partì così questa affascinante storia, la cui data di epilogo è stata messa nel 1956, anno della tragedia di Marcinelle. 
In questi cento e passa anni, sia imprese italiane che straniere investirono in questi luoghi e in queste miniere. A partire dall’ultimo decennio dell’ottocento e fino alla vigilia della prima guerra mondiale, vi fu una forte crescita infrastrutturale del polo minerario della Majella, che vide la costruzione di ferrovie, teleferiche, centrali idroelettriche, grandi stabilimenti per la lavorazione del materiale estratto.
Nel 1917 la Camera di Commercio di Chieti definì la Majella “il gruppo montuoso più ricco di minerali di tutta la parte centrale d’Italia…così da costituire una fonte inesauribile per l’industria alsfaltifero-bituminosa del nostro paese”.
Nelle miniere lavorarono uomini, donne e bambini, ognuno con un loro preciso compito (nel 1930  la storia ci racconta di oltre 1300 persone impiegate nelle miniere). Gli uomini dentro le miniere a scavare, le donne e i bambini a trasportare pietre. Durante la seconda guerra mondiale a lavorare nelle miniere furono messi anche i prigionieri di guerra e ancora oggi, in località Acquafredda di Roccamorice sono visibili i ruderi del campo di prigionia del 1943.
Dopo il 1950, le miniere di bitume e di asfalto furono progressivamente dismesse (anche se ancora produttive) in quanto tali prodotti e derivati venivano ricavati più facilmente dalle lavorazioni dirette del petrolio. 

Biografia:
http://www.valsimi.it/
https://www.tesoridabruzzo.com/segreti-della-majella/

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La Fattoria Valle Magica, una fattoria davvero speciale

12/5/2019

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Negli ultimi anni si sta risvegliando nella coscienza collettiva una nuova sensibilità verso i problemi dell'ambiente e dell'uomo. Allo stesso tempo, a causa dei ritmi frenetici che la vita moderna ci impone, si sta manifestando sempre più evidente la necessità di riappropriarsi della “libertà perduta”. Si stanno cioè creando le condizioni per mettere in pratica un diverso stile di vita basato sul ritorno alla terra, sulla decrescita consapevole, sul risparmio energetico, sull'alimentazione sana e naturale da ricercarsi in loco, piuttosto che lo sviluppo insostenibile, lo spreco delle risorse, il cibo spazzatura, modificato geneticamente che non si sa da dove provenga e cosa provochi. Certo, occorrono coraggio e determinazione per fare una scelta del genere che porta ad un cambiamento radicale della propria vita, abbandonando tutte le certezze costruite negli anni. 
Coraggio e determinazione che non sono mancati a Ralph e Ninke, 47 anni lui e 34 anni lei, che quattro anni fa hanno abbandonato la loro vita agiata in Inghilterra per inseguire il loro sogno di dare vita ad un’azienda agricola etica, sostenibile ed eco-compatibile, scegliendo di vivere a contatto con la terra, gli animali e la natura incontaminata dell’entroterra verde d’Abruzzo.
Ralph, irlandese di origine, era un manager di Amazon, guadagnava bene ma lavorava tanto, troppo, tanto che spesso stava giorni interi senza vedere i propri figli, altre volte invece usciva la mattina presto che i figli ancora dormivano e rientrava la sera tardi che i figli erano già a letto. Ritmi divenuti insostenibili che costringevano a mettere in secondo piano i veri valori della vita.
Ninke, olandese, è una psicologa in neuroscienze e in Inghilterra trascorreva le sue giornate facendo la mamma di quattro splendidi bimbi, Airik, che oggi ha nove anni, Lucian sette e i gemelli Anakin e Nimue di cinque anni, e accudendo per quattro ore al giorno un ottantenne italiano affetto da Alzheimer. Riccardo, questo il suo nome, era un emigrante abruzzese originario di Carapelle Calvisio, piccola frazione in provincia de L’Aquila, e nei suoi racconti non faceva altro che elogiare le bellezze e le tante virtù della sua terra di origine. Racconti che hanno fatto incuriosire Ninke e che hanno contribuito a far maturare in lei e Ralph l’idea di una vita diversa, altrove e più a misura d’uomo.
Ed è così che quattro anni fa la coppia si trasferisce a Carapelle Calvisio dove acquista una tenuta agricola a 600 m di altitudine con due casali, di cui uno oggi ristrutturato ed adibito a laboratorio di trasformazione dei prodotti e un altro ancora diroccato ma che nei sogni di Ralph e Ninke sarà la loro nuova casa con una splendida vista sulla Valle del Tirino, le propaggini meridionali del Gran Sasso e la Majella. Il contesto è incantevole, immerso in ettari di verde, ulivi, pini e querce secolari. Il nome che hanno dato alla loro azienda agricola è Fattoria Valle Magica; mai nome fu più appropriato!
Parlando con Ralph ci si rende subito conto della gioia che traspare dai suoi occhi e, mentre ci guida alla scoperta della sua fattoria, così ci racconta del suo progetto: “credo che tutti dovrebbero avere l'opportunità di mangiare carne sana e biologica come si faceva prima della produzione industriale. Ci concentriamo sull'allevamento e la conservazione sia di razze rare che tradizionali, non più utilizzate nella moderna agricoltura commerciale. Animali che crescono più lentamente e che vivono vite autosufficienti nel loro ambiente naturale. Ci occupiamo anche di agricoltura biologica e sostenibile basata su metodi che evitano l'uso di farmaci e pesticidi. Non utilizziamo macchine per lavorare la terra, tutto è fatto a mano o con l’aiuto degli stessi animali. I primi a calpestare il terreno da coltivare sono i tacchini che mangiano ciò che resta della precedente coltivazione e contribuiscono alla concimazione della terra, poi è la volta dei maialini nati da poco che arano il terreno senza appesantirlo ed eliminano le radici residue, infine è la volta delle galline che si occupano della fresatura e mangiano i parassiti. A quel punto la terra è pronta per la semina.”
Attualmente nella fattoria sono allevati 250 galline di razza pregiata, 100 tra oche e anatre, una cinquantina di tacchini che aiutano nel tenere lontani i serpenti, alcune faraone, che con i loro versi allertano tutta la fattoria in caso di attacchi da parte delle volpi, tre asini, una cinquantina di pecore della razza Gentile di Puglia, 20 capre di razza Girgentana, inconfondibili per le lunghe corna a spirale, 60 maiali neri, che dimorano proprio sotto le querce delle cui ghiande sono ghiotti e circa 50 conigli ospitati nelle loro casette colorate. Gli animali circolano liberamente nella fattoria con sette cani Pastore abruzzese e tre Dobermann a fare la guardia.
La fattoria è aperta ai visitatori per vedere gli animali ed è attrezzata per organizzare visite guidate, grigliate, pic-nic, degustazioni, eventi e corsi di vacanza per chiunque voglia fare esperienza di vita rurale e condividere la passione di Ralph e Ninke per l'agricoltura sostenibile. Uno spazio è dedicato esclusivamente ai bambini.
​Un’idea sicuramente nuova per i nostri tempi che richiede un impegno ed un lavoro fuori dal comune, ma che l’amore di questa bellissima famiglia per la natura e gli animali, con l’aiuto di tanti amici e conoscenti provenienti da mezza Europa, ha trasformato in una splendida realtà inserito in uno splendido contesto paesaggistico.


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Il MUN - Museo dell'uomo e della natura di Magliano dei Marsi nella riserva monte velino

25/4/2019

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Non solo un museo, bensì un prestigioso centro di conoscenza e sperimentazione della natura realizzato pensando soprattutto ad un pubblico di bambini e ragazzi, per stimolare in loro la sensibilità verso i temi della conservazione del territorio, del paesaggio e delle specie animali e vegetali. Questo è il nuovo “MUN – Museo dell’uomo e della natura”, inaugurato poco più di un anno fa, e allestito all’interno della sede dei Carabinieri Forestali della Riserva Naturale Orientata Monte Velino a Magliano dei Marsi (AQ). 
Il museo è allestito con diorami e vetrine in cui l'ambiente è riprodotto ed illustrato attraverso plastici, foto, immagini e pannelli. Inoltre attraverso l’utilizzo di tecnologie innovative e interattive si dà ai visitatori la possibilità di sperimentare attività inerenti la conoscenza della Biodiversità e, specialmente il pubblico più giovane, viene stimolato con interrogativi e curiosità che aiutano a immergersi con interesse nei diversi ecosistemi.
Dopo una prima parte in cui c’è il richiamo forte alle minacce dell’uomo sulla natura, il museo mostra le principali caratteristiche della Riserva del Monte Velino di cui è ricostruito l’ambiente tipico, ovvero il bosco e le pareti rocciose. Percorrendo le varie sezioni del museo vengono poi illustrate le buone pratiche messe in atto negli anni per salvaguardare le specie minacciate quali l’aquila reale e l’orso marsicano e le altre reintrodotte come il cervo, il corvo imperiale e il grifone.
L’ultima sezione offre uno spaccato sulla Biodiversità a livello mondiale trattando le attività condotte dai Carabinieri del Raggruppamento CITES per il contrasto al commercio illegale di esemplari o parti di specie minacciate.
Il nuovo assetto del museo ha permesso di rendere il percorso museale accessibile anche ai disabili motori e sensoriali, grazie alla collaborazione con l’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti di Avezzano.
La struttura museale ha anche il pregio di essere  inserita in un contesto naturalistico unico, quello della Riserva Naturale Orientata Monte Velino, istituita nel 1987 con lo scopo di tutelare un’area montana di circa 3.500 ettari di grande valore naturalistico ed ambientale, arricchita dalla presenza di specie ed ecosistemi rari e pregiati tra cui una coppia di aquila reale che nidifica nella Valle Majelama e che, proprio grazie alla istituzione della Riserva, è stato possibile proteggere consentendo di accrescere, negli anni, la popolazione appenninica di questo magnifico rapace.
Alla struttura didattico-museale si affiancano un’area di sosta attrezzata, un giardino botanico, nel quale sono stati riprodotti gli ambienti principali dell'area protetta, un percorso natura di circa due chilometri che permette di accedere alla voliera dei grifoni e all’area faunistica del Cervo, un deposito Cites nel quale sono esposti centinaia di reperti sequestrati dai Carabinieri forestali. Si tratta di oltre 500 esemplari di uccelli imbalsamati provenienti dall'Europa e dall'Italia, tutti appartenenti a specie rare e minacciate di estinzione
Il museo è sempre aperto e, all’occorrenza, possono essere svolti programmi speciali per gruppi e scolaresche. Consigliatissima una vita guidata.
 

Per contatti e maggiori informazioni è possibile rivolgersi a:

- Reparto Carabinieri Biodiversità di Castel di Sangro – Via Sangro n. 45 – 67031 Castel di Sangro (AQ) Tel. 0864 845938 – Fax 0864 840706  - E-mail: utb.casteldisangro@forestale.carabinieri.it
- Centro Visite della R.N.O. Monte Velino – via Pascolano, 10 – 67062 Magliano de’ Marsi (AQ) Tel/Fax 0863 515162 – E-mail: rno_m.velino@libero.it
- www.carabinieri.it


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Le Pagliare di Ofena, un viaggio a ritroso nel tempo in un angolo d’Abruzzo sconosciuto.

19/4/2019

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Tra le montagne d’Abruzzo ci sono antichi villaggi contadini d’altura, preziosa testimonianza del passato mondo pastorale e contadino montano. Sono le pagliare, piccoli centri che servivano da ricovero e deposito del fieno (da qui il nome) per i contadini che salivano in quota per coltivare i campi e portare il bestiame al pascolo durante l’estate.
Erano veri e propri paesi agresti in miniatura, fatti di casette di pietra a due piani, sotto il bestiame, sopra il contadino e la sua famiglia, disposte attorno a un’aia comune.
Le pagliare più famose sono quelle di Tione, di Fontecchio e di Fagnano posta ad una quota di 1.000-1.100 m, nel Parco Regionale Sirente-Velino. Queste venivano frequentate nella bella stagione dagli agricoltori e dagli allevatori residenti nei paesi del fondovalle del fiume Aterno. La media valle dell’Aterno, infatti, stretta e ripida com’è, ha sempre offerto poco terreno fertile ai suoi abitanti che, per sopperire a questa carenza, in primavera erano costretti a spostarsi negli altopiani soprastanti per coltivare la terra e far pascolare il bestiame. Una vera e propria migrazione estiva verso la montagna, unica nel suo genere in Abruzzo perché non era finalizzata al solo pascolo del bestiame ma anche e soprattutto alla coltivazione di grano, patate, farro e lenticchie.
Sicuramente meno famose, se non sconosciute, sono invece le Pagliare di Ofena, situate nell’alta Valle del Tirino, all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso, nel comune di Ofena. Il viallggio, ormai abbandonato da oltre cento anni, è costituito da circa venticinque piccole casette, per lo più a due piani, composte da una stalla al piano terra e un vano al piano superiore che fungeva da camera e cucina, alcune delle quali dotate di grotta sotterranea per la conservazione dei formaggi situate su un colle al cospetto del Monte Serra e delle propaggini meridionali della catena del Gran Sasso.
A differenza delle più conosciute pagliare sopra citate però, quelle di Ofena probabilmente assolvevano ad una funzione diversa da quella tipica dei villaggi d’altura della Valle dell’Aterno. La loro posizione in una zona con microclima temperato, molto adatta alla coltivazione di diversi tipi di colture, nonché la modesta altitudine, suggeriscono un’economia legata più ad attività agricole e pastorali di tipo stanziale. Essendo il villaggio organizzato lungo il percorso del tratturo Magno, molto probabilmente esso veniva utilizzato dai pastori pugliesi durante la transumanza estiva per il ricovero proprio e delle greggi.
Oggi gran parte delle casette sono state recuperate e ristrutturate attraverso il riuso attento delle tecniche e dei materiali dell’epoca. Nel 2008, infatti, grazie all’intuizione e alla buona volontà di due imprenditori pescaresi è stato avviato un progetto di recupero del borgo per il riuso a fini ricettivi basato sul modello di albergo diffuso. Purtroppo però le lungaggini burocratiche e amministrative e lo scarso support da parte delle istituzioni, tipiche del nostro paese, hanno scoraggiato le banche che hanno bloccato i finanziamenti con conseguente interruzione dei lavori giunti a circa il 65% del loro completamento.
Un paio di anni fa, in occasione di un evento sulla pastorizia organizzato dall’Associazione Terre Nostre, i due imprenditori sono tornati ad accendere i riflettori per rilanciare la loro idea di turismo sostenibile nella speranza di reperire nuovi finanziamenti, necessari per il completamento delle opere e il definitivo recupero del borgo.
Ad oggi però è ancora tutto fermo e il borgo è tornato ad essere un villaggio fantasma dove il tempo ha smesso di scorrere, lasciando un eredità di edifici diroccati, stradine deserte e case silenziose immerse nella quiete di un paesaggio quasi spettrale.

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IL PARCO DI ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE DI PETTORANO SUL GIZIO

14/6/2018

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Nel comune di Pettorano sul Gizio, all’interno della Riserva Naturale Regionale Monte Genzana, c’è un luogo affascinante e suggestivo, autentica testimonianza del passato di questi luoghi e delle sue economie.
Sto parlando del Parco di Archeologia industriale situato ai piedi del borgo, nei pressi delle sorgenti del fiume Gizio,  un autentico laboratorio multidisciplinare a cielo aperto caratterizzato da percorsi didattici tra giardini, frutteti, ramiere e mulini risalenti ad epoche tra il 1500 e il 1800 che raccontano gli avvenimenti dell’antico borgo.
All’interno del Parco sono infatti presenti quattro antichi opifici idraulici:  il mulino comunale, il mulino De Stephanis, il mulino Cantelmo e la Ramiera-Gualchiera , con tanto di antiche macine, alloggio per il mugnaio e stalla per gli animali che trasportavano farina e grano.
I mulini sono stati recuperati e ristrutturati mentre all’esterno si conservano ancora le imponenti testimonianze dei canali che vennero costruiti per convogliare con forza l'acqua del fiume per azionare le macine.
I mulini, tutti a ruote orizzontali, venivano utilizzati per la produzione di farina mentre la ramiera/gualchiera/polveriera, a ruote verticali, è stata utilizzata nel tempo sia per la lavorazione del rame, sia per la lavorazione della lana, sia per la lavorazione di polvere da sparo.
La lana veniva lavorata attraverso il processo chiamato di follatura, attraverso il quale  il tessuto di lana, imbevuto di soluzioni alcaline, era sottoposto, mediante magli, a battitura con lo scopo di ottenere una maggiore resistenza e compattezza del tessuto stesso infeltrendolo .
La polvere da sparo, invece, veniva prodotta e poi venduta alla fortezza di Civitella del Tronto. Per la produzione della povere da sparo infatti era indispensabile l'utilizzo della polvere di carbone che veniva prodotto in abbondanza nei boschi circostanti.
 
Per chi volesse, è possibile passare una giornata all’interno dell’area usufruendo di tavoli da pic nic e punti fuoco. È possibile anche effettuare visite guidate e richiedere l’utilizzo delle strutture per lo svolgimento di attività nel rispetto delle norme presenti nel regolamento comunale.
L’area è gestita dalla cooperativa Valleluna a cui è necessario rivolgersi per informazioni, prenotazioni e prezzi.
 
 
Link utili:
https://www.riservagenzana.it/musei/archeologia-industriale/
http://www.comune.pettorano.aq.it/comune/stat_regolamenti/regolamento_parco_arch_ind.pdf


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LE GOLE DI SAN VENANZIO

18/5/2018

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Tra la pianura agricola della conca Peligna e il Parco Regionale del Sirente-Velino, il fiume Aterno ha scavato nel corso dei millenni un canyon lungo sei chilometri costruendo un suggestivo ed impervio paesaggio incastonato tra le pareti rocciose dei Monti Mentino e Urano ed oggi conosciuto con il nome di Gole di San Venanzio. Alte pareti di roccia calcarea sulle quali hanno trovato il loro habitat ideale l’Aquila Reale, il Falco Lanario, il Falco Pellegrino, l’Astore e lo Sparviere.Autentica “porta di accesso” alle gole è il bellissimo eremo di San Venanzio, risalente al XV secolo, costruito tra le due sponde nel punto più stretto del canyon.
Da sempre frequentato dall’uomo, tra le pareti rocciose delle gole sono state rinvenute in ottimo stato di conservazione pitture rupestri risalenti al periodo del Neolitico (circa 6.000 anni fa). Risalgono invece a circa 2.000 anni fa uno stupendo acquedotto romano, lungo cinque chilometri e scavato interamente nella roccia, e la Rava Tagliata, un’antica via di comunicazione che collegava la Valle Peligna con la Valle Subequana, anch’essa scavata nella roccia e sospesa a precipizio sulle gole.
In prossimità dell’eremo sono presenti i resti di un vecchio mulino ad acqua, preziosa testimonianza di archeologia industriale, di cui sono ben visibili i tre archi in pietra per il passaggio dell’acqua e l’alimentazione delle pale che azionavano le macine all’interno. All’ingresso delle gole, invece, nella sottostante pianura di origine alluvionale, sgorgano le acque sulfuree della sorgente Solfa. In corrispondenza della sorgente, resti di antiche mura attestano una frequentazione del luogo risalente almeno al II secolo a.C.

Dal 1998 questo bellissimo angolo d’Abruzzo ricco di storia e natura è diventato, con legge della Regione Abruzzo, un’area naturale protetta denominata Riserva naturale guidata Gole di San Venanzio, che si estende per 1072 ettari. La sede operativa della Riserva e il suo punto di accoglienza sono situati nella vicina Raiano, paese famoso per la produzione di ciliegie. Oltre alle bellissime chiese e alla torre medievale, nel paese merita una visita il Museo storico “Frantoio Fantasia”, attivo fin dal 1844, anch’esso straordinario elemento di archeologia agricolo-industriale con al suo interno uno splendido torchio pliniano caratterizzato, al centro, da una trave di quercia lunga sei metri. Nella vasca di macinazione campeggia un’enorme ruota in pietra, detta mola del trappeto. Nel trappetus romano troviamo poi l’oliviera, dove venivano stoccate le olive trasportate dai contadini in sacchi di iuta. Il frantoio ospita ogni anno l'iniziativa ''L'olivo racconta: un percorso didattico e gastronomico che attraversa la cultura e l'economia legata alla coltivazione dell'olivo.

Informazioni utili:

Sede della Riserva (ufficio informativo):
67027 Raiano (AQ) - Viale Medaglia d'Oro "G. Di Bartolo", nei pressi del Palazzo Municipale
​Recapito telefonico: 
0864 726058
Indirizzo e-mail: info@golesanvenanzio.it

Eremo di San Venanzio, aperture per la visita al pubblico:
​da Giugno a Settembre il sabato e la domenica dalle 10:30 alle 13:00 e dalle 16:00 alle 18:00
​Sono previste aperture straordinarie in alcuni particolari giorni dell'anno (25 aprile, Pasqua e Pasquetta, 1° maggio, ecc.)


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La grotta delle meraviglie

18/4/2017

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Tra i tanti tesori custoditi dal Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise, la Grotta dello Schievo è un autentico gioiello, un vero e proprio scrigno di bellezza che in primavera si mostra nel suo massimo splendore.
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Un antro che si apre al di sotto di una bastionata rocciosa e poco sopra un bellissimo salto d’acqua di diverse decine di metri. Nella stagione giusta, la grotta custodisce al suo interno un bellissimo salto d’acqua di circa cinque metri che sgorga direttamente dalla roccia e va a formare un laghetto d’acqua gelida e cristallina. Uno spettacolo che lascia chiunque senza fiato.
 
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Il misterioso fascino della Grotta Sant'Angelo di Palombaro

28/3/2017

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Sulle pendici orientali della Maiella all'interno dell'antico Feudo Ugni, nel territorio del comune di Palombaro, si trova la Grotta Sant’Angelo, un misterioso e sorprendente luogo di culto. Un'ampia apertura nella roccia nascosta nel bosco di faggi e collocata ad una quota di circa 850 m s.l.m. custodisce al suo interno un vero e proprio tesoro; una piccola chiesa rupestre con abside semicircolare che affiora dalla parete rocciosa.
Non si hanno notizie certe sulla data di costruzione della chiesa, apparentemente risalente tra l'XI e il XII secolo. La prima fonte storica risale al 1221 con una bolla di papa Onorio III che cita la chiesa di Sant’Angelo nell’elenco dei possedimenti del monastero di San Martino in Valle (situato nel non lontano vallone di Santo Spirito a Fara San Martino).
Della chiesa oggi restano solo la parete dell'ambiente absidale e la zona ove era posto l'altare. Lo stile architettonico dell'abside è riconducibile al preromanico abruzzese in quanto assimilabile all'abside di San Liberatore a Maiella presso Serramonacesca.
Oltre ai ruderi della chiesa, la grotta conserva anche quattro vasche scavate nella roccia che servivano per la raccolta di acqua piovana. Nonostante ciò il luogo riesce ancora a sorprendere il visitatore per la struggente spiritualità che tuttora lo avvolge.
Gli studiosi concordano nel dire che la grotta, nel corso dei millenni, ha visto l’alternarsi al suo interno riti diversi nella forma, ma sostanzialmente riconducibili all’adorazione di dei e santi protettori della fertilità, della natura e della donna.

La grotta fu inizialmente un tempio dedicato a Bona, dea della fertilità. Per invocare la sua protezione e per favorire l’abbondanza di latte, le donne in età fertile raggiungevano la grotta per bagnarsi il seno nudo nell’acqua che da una sorgente sgorgava all’interno della grotta e veniva raccolta nelle quattro vasche che si trovano al suo interno. Con la cristianizzazione del territorio poi, Sant’Agata sostituì nella cultura popolare la dea Bona come protettrice della fertilità e i rituali per le donne rimasero gli stessi. Solo dopo l’abbandono da parte degli abitanti del villaggio di Ugni, nelle cui pertinenze si trovava la grotta, il nome fu cambiato e la chiesa fu intitolata a S. Michele Arcangelo, che aveva sostituito il dio italico Ercole come protettore della transumanza. Il luogo infatti presentava tutte quelle caratteristiche affinché vi potesse nascere un culto per il santo: la grotta, l'acqua e la presenza pastorale.

​
Accesso stradale:
Lungo la SS 263 tra Palombaro (CH) e Pennapiedimonte (CH) , in località Tornelli, prendere la prima stradina a sinistra che, tortuosa, sale molto ripida per circa 4 km. Ad un incrocio seguire la segnaletica gialla per “Grotta Sant’Angelo” fino ad un piccolo parcheggio nei pressi del pannello informativo della Riserva Naturale Fara San Martino – Palombaro.


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Roccacaramanico, il borgo sommerso dalla neve

27/1/2017

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Foto
Roccacaramanico, frazione di Sant’Eufemia a Majella, è un bellissimo e caratteristico paesino in provincia di Pescara situato a 1.050 m s.l.m. alle falde della Majella.
La sua posizione, chiusa a sud-est dal monte Amaro, alto ben 2.795 m, e a sud-ovest dal Monte Morrone, alto 2041 m, nonché la geografia del luogo, ne fanno una località dal clima eccezionale, soprattutto in inverno, quando le fredde correnti provenienti dai Balcani restano praticamente intrappolate tra i due massicci montuosi generando precipitazioni nevose dagli accumuli eccezionali. Fenomeni nevosi che si ripetono praticamente quasi tutti gli anni con apporti nevosi che spesso superano anche i tre metri di altezza lasciando il paese isolato dal resto mondo per giorni e giorni.
Lo scorso 21 gennaio con un amico, guida escursionistica anche lui, abbiamo raggiunto a piedi e con non poca fatica e difficoltà il bellissimo borgo, anche questa volta rimasto isolato dalle abbondantissime nevicate della settimana scorsa.
​Siamo partiti da San Giacomo, fraz. di Sant'Eufemia a Majella (PE), ultimo paese raggiungibile in automobile. A piedi ci siamo poi inoltrati nell'alta valle del fiume Orta cercando di seguire la linea del sentiero Q7 sommerso sotto circa due metri di neve.
​Il paesaggio, come sempre in questi casi, era fantastico!!!!!!


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