Quando sentiamo parlare degli zampognari l’immagine che ci viene in mente è quella di un vagabondo, musico di piazza, metà pastore metà mendicante, una sorta di pastore errante che contempla i cieli stellati al suono melodico della sua zampogna. Ma chi erano gli zampognari, questi artisti per lungo tempo ignorati dalla cultura musicale italiana ma al contrario molto considerati e visti con un alone di leggenda da scrittori, poeti, pittori e musicisti stranieri? La zampogna è uno strumento musicale a fiato caratterizzato da un otre di pelle pieno d’aria nel quale sono inserite alcune canne. Attraverso una di queste canne, detta insufflatore, il musicista immette il fiato dentro l'otre e attraverso la pressione esercitata con l’avambraccio l’aria viene distribuita in modo costante nelle altre canne da dove l’aria fuoriesce emettendo un suono. L’uso della zampogna era un tempo molto diffuso in tutto l’Abruzzo ed era strettamente legato alla pastorizia e alla cultura pastorale. Le condizioni dei pastori sono sempre state misere ma chi fra di loro aveva un orecchio musicale, anche se analfabeta, apprendeva dal padre o dal nonno l’arte di suonare la zampogna tramandando così di generazione in generazione un repertorio musicale giunto fino ai giorni nostri. Erano gli stessi pastori a costruire i propri strumenti, avvalendosi delle loro capacità di intagliare il legno e lavorare le pelli. D’altronde le loro misere condizioni economiche, che a mala pena ne garantivano la sopravvivenza, non avrebbero mai premesso loro l’acquisto di uno strumento musicale. I pastori passavano la maggior parte del loro tempo in totale solitudine sui loro monti e la zampogna rappresentava per loro uno strumento di compagnia inseparabile nel mentre trascorrevano le loro giornate nella vigilanza del gregge. In inverno, quando la neve aveva ricoperto i monti e i prati, i pastori zampognari si spostavano da un paese all’altro suonando le loro zampogne in occasione di feste e mercati per racimolare qualche soldo. Molti di loro, nel periodo natalizio, si spingevano fino alle grandi città come Roma e Napoli per suonare la novena di Natale alla Madonna cogliendo così l’opportunità di integrare le magre entrate con offerte in denaro o in natura. A metà Ottocento, con il crollo della pastorizia a seguito della soppressione delle leggi che imponevano il pascolo forzato sul Tavoliere delle Puglie, iniziò di fatto il declino delle antiche tradizioni musicali legate alla zampogna, che subirono poi un altro durissimo colpo per effetto delle misure militari di sicurezza e di ordine pubblico successive all’Unità d’Italia e legate al contrasto del brigantaggio. Agli zampognari, infatti, venne vietato l’accesso a Roma, per il rischio che tra di loro potessero nascondersi i briganti. Entrata in crisi l’economia pastorale Abruzzese, i pastori e gli zampognari furono costretti ad emigrare lasciando i loro paesi. Un vero e proprio esodo, che ha decimato le aree interne. Tra il ‘700 e l’800 molti giovani pittori, scrittori, musicisti, provenienti dall’aristocrazia europea si misero in viaggio verso l’Italia dando vita a quel fenomeno che prese il nome di Gran Tour d’Italia. I viaggiatori del Grand Tour venivano in Italia attratti dalle testimonianze storiche del nostro paese, dall’arte, dai paesaggi e dallo stile di vita, privilegiando soprattutto le più importanti città come Roma, Venezia, Firenze e Napoli. Nei loro soggiorni a Roma questi viaggiatori furono particolarmente incuriositi dai cosiddetti “pifferai” abruzzesi (come venivano chiamati a Roma gli zampognari) e molti di essi ne rimasero talmente affascinati da decidere di avventurarsi verso l’Abruzzo, nonostante in quei tempi la nostra regione venisse dai più descritta come terra aspra, con montagne selvagge e pericolosa per la presenza di briganti. Tra i tantissimi scritti lasciati da questi viaggiatori per raccontare la loro avventura in Italia, molto bella è la testimonianza del compositore francese Hector Louis Berlioz che, nelle sue memorie di viaggio, parlando degli zampognari scrisse: "Ho notato solamente a Roma una musica strumentale popolare che tendo a definire come un resto dell'antichità: parlo dei pifferari. Si chiamano così i musicisti ambulanti che, in prossimità del Natale, scendono dalle montagne […] e, armati di zampogne e pifferi, eseguono dei pii concerti davanti le immagini della Madonna. Solitamente sono coperti da ampi mantelli di drappo scuro e portano un cappello a punta come quello indossato dai briganti […]. Ho trascorso delle ore intere a contemplarli nelle strade di Roma […] Ho sentito in seguito i pifferari direttamente nelle loro terre e, se li avevo trovati così notevoli a Roma, l'emozione che ho ricevuto fu molto più viva nelle montagne selvagge dell'Abruzzo, dove il mio umore vagabondo mi aveva condotto". Oggi l'impiego della zampogna in ambito rurale (per processioni, rituali, feste e balli) è ancora praticato in Abruzzo. In ambiente urbano la zampogna viene associata immediatamente al Natale, perché ancora oggi nei grandi centri urbani nel periodo natalizio, capita di vedere alcuni zampognari che dalla montagna scendono in città e percorrendo le vie cittadine in abiti tipici suonano con le loro zampogne motivi natalizi tradizionali per ricevere offerte dai passanti. Generalmente gli zampognari suonano in coppia, uno la zampogna vera e propria ed un altro la ciaramella. Probabilmente tutti conoscono “Tu scendi dalle stelle”, il canto natalizio per eccellenza, in pochi però sapranno che l’autore, S. Alfonso Maria de Liguori, scrisse il testo di questa canzone (in realtà una preghiera!) adattandolo alle melodie che facevano parte del repertorio degli zampognari abruzzesi. Ancora oggi lo zampognaro rappresenta una presenza fissa del presepe dove generalmente trova posto nelle immediate vicinanze della "capanna" o "grotta" della Sacra Famiglia. Bibliografia: - "Zampognari. Mito dell'Abruzzo pastorale" - Antonio Bini - Edizioni Menabò, 2020 - "Memoires de Hector Berlioz" - H. Berlioz - Calman-Levy, Paris, 1870 - "The shepherds of Abruzzi" - The Penny Magazine - 23 marzo 1833 © Ercole Di Berardino - esploramonti.it - All rights reserved E' vietata la riproduzione di testi ed immagini senza l'autorizzazione scritta da parte dell'autore.
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C’è un luogo, nel Parco Nazionale d’Abruzzo, molto poco conosciuto. Mi verrebbe da dire che è normale sia così, trattandosi di una zona dove la protezione della natura è massima e dove, in effetti, è consentito l’accesso solo per motivi di ricerca o di controllo. Si tratta della Riserva Naturale Orientata di Feudo Intramonti – Colle Licco, istituita una quarantina di anni fa per la tutela e il ripristino di determinati equilibri alterati dall’uomo in una zona del Parco di straordinaria importanza vista la sua ubicazione e il suo particolare interesse naturalistico e paesaggistico.
Questi luoghi oggi sono protetti e l'ecosistema viene lasciato alla sua evoluzione naturale e selvaggia, un tempo però le cose non stavano così. Tra la fine dell’800 e la metà del ‘900 questo angolo d’Abruzzo, compreso tra i monti della Camosciara e il Ferroio di Scanno, ha rappresentato la fonte di sostentamento degli abitanti di Villetta Barrea e di Civitella Alfedena che con le loro attività di pascolo, raccolta legna, produzione di carbone e segheria hanno arricchito la cultura e le tradizioni di questi posti. La riserva ha il suo fulcro nel Casone Crugnale, dal nome della famiglia che vi abitò dal 1878 al 1957, oggi Centro di Educazione Ambientale e sede dell’Unità Territoriale per la biodiversità dei Carabinieri Forestali. Il Centro ha all’interno della struttura un grazioso museo naturalistico e di interpretazione ambientale, con ambienti dedicati a laboratori e a seminari e dove sia i bambini che gli adulti possono interagire attraverso giochi e immagini con la vita del parco. Di fronte al Centro, attraversata la S.S. 83 Marsicana, il bosco custodisce stralci di vita passata con i resti dell’antica segheria e le carbonaie, ricostruite appositamente per far conoscere quello che fino alla metà del secolo scorso era un lavoro molto diffuso, non solo in questi luoghi, ma su tutte le montagne d’Italia. Il carbonaio era il mestiere che permetteva di trasformare la legna in carbone vegetale. I carbonai, per esercitare il loro mestiere, dovevano abbandonare il paese dall'inizio della primavera fino ad autunno inoltrato per trasferirsi con la famiglia in montagna, nei boschi dove c'era la legna da tagliare. Le donne, oltre a partecipare alla produzione, badavano ad ogni altra cosa di necessità della famiglia, compreso l'onere di allevare ed educare i figli e quando capitava portare a termine le gravidanze. In passato il carbone vegetale veniva utilizzato al posto del carbone fossile mentre oggi il carbone vegetale, noto anche come carbonella, è utilizzato esclusivamente per alimentare i barbecue e i forni a legna delle pizzerie. La carbonaia veniva preparata costruendo una sorta catasta centrale che fungeva da camino principale, alla quale si appoggiavano in verticale piccoli tronchi di legna in modo da formare un cono sempre più grande, fino alla misura voluta, che poteva anche raggiungere i 6-7 metri di diametro e 2-3 metri di altezza, a seconda dell'abilità del carbonaio, della qualità della legna, e della disponibilità di terra per ricoprire il tutto. Il cumulo di legna veniva ricoperto con foglie e frasche, ed infine con uno strato di circa 10 cm di terra per impedire che la carbonaia prendesse fuoco come una normale catasta di legna. Il mantello di terra, bloccando la normale combustione a fiamma libera, faceva sì che la legna cremasse e si trasformasse in carbone. E' un fenomeno chimico fisico di cui i carbonai non conoscevano gli esatti meccanismi, ma a loro bastava il risultato. L’abilità del carbonaio stava quindi nel riuscire a togliere la quantità corretta di ossigeno al processo di combustione della legna, in modo da evitare da una parte che il fuoco si spegnesse e, dall'altra, che il fuoco prendesse vigore bruciando la catasta di legna. L'accensione della carbonaia era uno dei segreti del mestiere. Occorreva appiccare il fuoco all'interno, al centro, in modo che si diffondesse uniformemente. L'arte dei carbonai era quella di guidare quel particolare fuoco all'interno di quel cono di legna ricoperto di terra, che fumava come un vulcano. I carbonai praticavano dei fori di tiraggio affinché il fuoco procedesse nella giusta direzione, ma erano pronti a richiuderli al momento giusto quando il fuoco esagerava o aveva finito la sua funzione. Per cui la carbonaia andava attentamente sorvegliata, giorno e notte, fino a quando tutta la legna non si fosse trasformata in carbone, stando attenti che il carbone non bruciasse. Se il terreno si prestava venivano preparate anche due o tre carbonaie e vicino una capanna o baracca in cui si riparavano i carbonai per tutto il tempo necessario all'operazione, che poteva durare anche decine di giorni. Dopo aver lasciato raffreddare la carbonaia, si procedeva all'asportazione dello strato di terra di copertura e alla raccolta del carbone. INFORMAZIONI UTILI: La Riserva Naturale Orientata di Feudo Intramonti - Colle Licco è gestita dall'Unità Territoriale per la Biodiversità dei Carabinieri Forestali. Per visitare il Centro di Educazione Ambientale e conoscere gli eventi organizzati è possibile contattare fare riferimento ai seguenti contatti: Reparto Carabinieri Biodiversità Castel di Sangro Tel. 0864-845938 utcb.casteldisangro@forestale.carabinieri.it Riserva Naturale Orientata Feudo Intramonti - Colle di Licco rno.intramonti@libero.it © Ercole Di Berardino - esploramonti.it - All rights reserved E' vietata la riproduzione di testi ed immagini senza l'autorizzazione scritta da parte dell'autore. La Majella è una montagna molto amata dagli abruzzesi ed è ricchissima di emergenze naturalistiche, storiche e culturali. Se da un lato molto frequentati ed apprezzati sono i lunghi e panoramici itinerari d’alta quota diretti alle cime del massiccio, dall’altro lato meno conosciute sono le “passeggiate” di bassa quota che partono dai paesi alla scoperta dei preziosi tesori dell’arte, della storia e della cultura dei nostri avi che per secoli hanno frequentato queste montagne.
Tra questi tesori, meritano di essere conosciute le capanne pastorali in pietra a secco (anche dette “tholos” per la loro forma a cupola) vere perle dell’architettura spontanea di un tempo e preziosa testimonianza dell’antico fenomeno della transumanza verticale, o monticazione, che fino ad alcuni decenni fa ha visto il periodico spostamento di animali e persone dalla pianura ai freschi pascoli in quota. Nelle zone montane di pascolo prive di grotte o ricoveri naturali i pastori erano costretti a costruirsi da soli i rifugi per il riparo, la caseificazione e la rimessa degli attrezzi. Quelli costruiti in pietra sono il tipo di ricovero ad uso pastorale e agricolo più comune sulla Majella. I materiali da costruzione venivano raccolti direttamente sul posto. Queste capanne sono state utilizzate sino a tempi relativamente recenti. La tecnica costruttiva di queste strutture pare abbia un’origine antichissima, risalente all'antica Grecia e ancora prima alla cultura fenicia ed è pervenuta in Abruzzo probabilmente dalla Puglia. Le prime capanne pastorali abruzzesi risalirebbero a circa 200-300 anni fa e risulta che gli ultimi esemplari di questa tipologia siano stati realizzati negli anni 50 del secolo scorso e che gli abili artigiani, ancora in vita fino a qualche anno fa, fossero pagati, come da tradizione, con forme di formaggio. Le capanne potevano essere molto articolate e complesse oppure estremamente semplici sia nell’aspetto esterno che negli ambienti interni, e questo dipendeva sia dall’uso che se ne faceva sia dell’esperienza e dall’abilità di chi le costruiva. Nella costruzione del “tetto” si utilizzava la tecnica della “falsa cupola” che evitava l’uso delle travi in legno per il sostegno della copertura. Le pietre riuscivano a stare su grazie alla loro particolare disposizione in cerchi concentrici. Questa tecnica è stata utilizzata per secoli ed è la stessa che ritroviamo nei trulli pugliesi oppure nei nuraghi sardi. La falsa cupola caratterizza le capanne dette “a Tholos”, termine che oggi viene solitamente ma erroneamente utilizzato come sinonimo di “capanna in pietra a secco”. Esso infatti ne rappresenta solo una tecnica costruttiva. Le capanne possono essere costruzioni isolate oppure essere raggruppate in complessi più strutturati. Questi ultimi sono costituiti da più capanne incluse nelle mura di un alto recinto in pietra. I complessi pastorali rappresentavano delle vere e proprie masserie stagionali. Purtroppo con l’abbandono dei pascoli e dei campi è iniziato il lento degrado di tutte le strutture in pietra a secco a causa del venir meno della necessaria manutenzione a cui esse erano sottoposte e questo, con il trascorrere del tempo, rischia di farci perdere un patrimonio storico-culturale unico e di inimitabile bellezza. I complessi pastorali più belli e meglio conservati della Majella sono:
© Ercole Di Berardino - esploramonti.it - All rights reserved E' vietata la riproduzione di testi ed immagini senza l'autorizzazione scritta da parte dell'autore. Volendo identificare l’autunno con un frutto non potremmo che pensare alla castagna, simbolo per eccellenza di una stagione dell’anno particolarmente affascinante per i suoi colori.
Alto fino a 30 metri e longevo fino a mille anni il castagno è una pianta tipicamente mediterranea che vegeta spontaneamente nei boschi misti di latifoglie fino ai 1300 metri di quota, prediligendo le esposizioni a nord e le zone abbastanza piovose. Per secoli l’uomo ha basato la propria esistenza sul castagno e sui suoi preziosissimi frutti. Un compagno fedele in anni difficili, il castagno è stato definito “l’albero del pane” perché almeno fino alla seconda guerra mondiale esso ha rappresentato una risorsa fondamentale per la sopravvivenza di gran parte delle famiglie di montagna. Le castagne venivano consumate fresche, arrostite, bollite oppure venivano fatte essiccare e poi macinate per ottenerne la farina con la quale si facevano pane, minestre, dolci, marmellate e creme. Del castagno non si sprecava nulla: le bucce delle castagne si mettevano da parte per alimentare il fuoco dell’essiccatoio, le foglie erano utilizzate come lettiera per gli animali nelle stalle, i ricci venivano fatti marcire per poi diventare concime per gli alberi, il legname serviva per riscaldare i casolari e per la costruzione di attrezzi. Con la crescita economica e l’abbandono della montagna questo legame di vita tra l’uomo e il castagno è venuto meno, anche se negli ultimi anni si sta riscoprendo l’importanza della coltivazione del castagno da frutto per lo sviluppo delle attività economiche, culturali e turistiche dei paesi di montagna al fine di limitarne lo spopolamento. Da un punto di vista turistico ne sono un esempio le tante sagre che vengono organizzate a cavallo tra ottobre e novembre in tanti caratteristici borghi di montagna, oppure le tante belle passeggiate ed escursioni che vengono organizzate da associazioni e proloco per la visita ai castagneti. Raccoglierle le castagne nei boschi di montagna, infatti, è una piacevole e divertente attività che può rendere speciale una giornata in famiglia o con gli amici. Per i bambini poi raccogliere le castagne è una vera e propria festa, uno svago sano e divertente che resterà per sempre nella loro memoria come un’esperienza indimenticabile. Una volta che ci si sarà addentrati nei boschi, riconoscere i castagni non sarà difficile, sia per la presenza a terra e sui rami dei caratteristici ricci, sia per le foglie di quest’albero che sono grandi e lunghe sino ad una ventina di centimetri. Foglie semplici e dai bordi seghettati che in autunno cadono a terra formando un folto tappeto giallo-brunastro. I ricci quando i frutti sono maturi cadono a terra, quindi non ci sarà alcun bisogno di raccogliere quelli che sono ancora sugli alberi. I ricci sono ricoperti da moltissime spine acuminate e di solito sono solo parzialmente aperti. Aprirli a mani nude senza pungersi è un’operazione impossibile, quindi per l’apertura degli stessi ci si dovrà aiutare con un bastone o, meglio, con robusti guanti da lavoro. Generalmente dentro un unico riccio si trovano due o tre castagne. In Abruzzo i castagneti più pregiati si trovano sui Monti della Laga (nei comuni di Leofara, Senarica e Morrice sono per fare alcuni esempi), in Valle Roveto (Morino e Canistro), nella Marsica (Sante Marie e sue frazioni), nella Valle dell’Aterno (San Felice d’Ocre e zone limitrofe). Per chi decidesse organizzarsi autonomamente nella visita ai castagneti va ricordato che molti di essi sono privati e, di solito, recintati, altri invece sono di proprietà comunale. Conviene pertanto sempre informarsi presso i comuni per informarsi in merito all’esistenza di eventuali regolamenti che disciplinano la raccolta delle castagne nei castagneti di loro proprietà. Generalmente la raccolta di piccoli quantitativi è quasi sempre permessa nel mese di novembre quando ormai la raccolta a fini commerciali si è conclusa. Qui di seguito le più importanti sagre della castagna organizzate in Abruzzo: - Sagra della castagna di Sante Marie (AQ) giunta alla 43^ edizione; - Sagra della castagna di Tufo di Carsoli (AQ) giunta all'8^ edizione; - Sagra della castagna di San Felice d'Ocre (AQ) giunta alla 29^ edizione; - Sagra della castagna di Canistro (AQ) giunto alla 38^ edizione; - Sagra della castagna roscetta di Morino (AQ) giunta alla 20^ edizione; - Sagra della castagna di Leofara (TE) giunta alla 36^ edizione; - Festa della castagna di Senarica (TE) giunta alla 10^ edizione; - Sagra della castagna di Morrice di Valle Castellana (TE) giunta alla 2^ edizione; - Festa della castagna di Intermesoli di Pietracamela (TE) giunta alla 14^ edizione. © Ercole Di Berardino - esploramonti.it - All rights reserved E' vietata la riproduzione di testi ed immagini senza l'autorizzazione scritta da parte dell'autore. La natura prevalentemente montuosa dell’Abruzzo ha favorito, fin dall'antichità, lo sfruttamento pastorale di buona parte dei suoi territori. L'allevamento ovino ha svolto un ruolo determinante per l'economia delle popolazioni abruzzesi lasciando un'impronta duratura su diversi aspetti dello sviluppo storico, sociale e culturale della regione. La condizione essenziale che favorì lo straordinario sviluppo della pastorizia abruzzese fu il cosiddetto sistema di pastorizia transumante che consisteva nello spostamento stagionale delle greggi fra zone di pascolo complementari che si trovavano le une in montagna, sfruttate nella stagione estiva, e le altre in pianura, ottime per il pascolo invernale. In questo modo si riusciva a garantire alle greggi pascoli abbondanti e clima temperato per tutto l’anno. E così ogni autunno in Abruzzo, dalla conca aquilana, dalla Marsica e da Pescasseroli, centinaia di uomini e migliaia di pecore muovevano a piedi per centinaia di chilometri verso i pascoli pianeggianti del Tavoliere delle Puglie dove la vegetazione, a differenza dei pascoli montani abruzzesi, raggiungeva il suo massimo rigoglio proprio nella stagione invernale. La transumanza, dalle parole latine “trans” (al di là) e “humus” (terra), come a voler dire “al di là della terra (consueta)”, può essere di due tipi: “verticale" (o alpina) che consiste nello spostamento delle greggi fra l'alta montagna e le vallate sottostanti, tipica dei Pirenei, delle Alpi e dei Carpazi; o “orizzontale” che, invece, sfrutta alternativamente pascoli situati anche a notevole distanza fra loro e che si è affermata in area mediterranea, in particolare nell'Italia centro-meridionale, nella Francia meridionale, in Spagna e in Grecia. Si può dire che la transumanza abruzzese aveva un po’ tutte e due le caratteristiche perché, allo stesso tempo, sfruttava pascoli montani e pascoli di pianura situati però a notevole distanza fra di loro. Il tragitto dei transumanti avveniva lungo una rete di larghe vie erbose chiamate “tratturi”. Questi seguivano itinerari fissati dall'uso nei millenni, ma che già a partire dall'epoca romana e con più vigore durante la dominazione aragonese furono rigidamente determinati e protetti da apposite leggi. Esistevano dei tratturi principali ai quali si affiancava tutta una rete di “tratturelli” minori che in essi confluivano. I tratturi principali avevano una larghezza variabile da 55 a 111 metri ed una lunghezza che arrivava fino a 245 km. A servizio di questa immensa rete di tratturi, sorsero nel corso del tempo centinaia di abbeveratoi, chiese rurali, cappelle, taverne, ponti e diversi punti di sosta, i cosiddetti "riposi", strategicamente posti in zone ampie, ombreggiate e ricche d'acqua, adibite al ristoro di greggi e pastori. Nella metà del sedicesimo secolo venne addirittura istituito uno speciale corpo di polizia a cavallo incaricato di garantire la sicurezza dei percorsi. Questo a dimostrazione del ruolo di primo piano assunto in quel periodo dall’”industria” armentizia che aveva nella pastorizia transumante il suo fulcro principale alla quale si integrava perfettamente l’attività commerciale basata sulla commercializzazione dei suoi prodotti primari: latte, formaggio e lana. I tratturi principali erano tre: il tratturo L’Aquila – Foggia, anche detto il regio tratturo, lungo 244 km, il tratturo Celano – Foggia, lungo 207 km, e il tratturo Pescasseroli – Candela, lungo 211 km. Il viaggio di spostamento delle greggi lungo questi percorsi durava dai dodici ai ventidue giorni, a seconda della lunghezza del tratturo percorso. Era un viaggio molto duro e faticoso che richiedeva un grande impegno fisico sia per gli uomini che per gli animali. Tutto era organizzato nei minimi particolari e nulla veniva lasciato al caso; ognuno aveva il suo ruolo. E così tra i pastori si distinguevano “i butteri” dai semplici “pecorari”: i primi avevano il compito di preparare i muli e i cavalli per il lungo viaggio, fare e disfare i recinti nelle aree di sosta durante le varie tappe, preparare da mangiare e controllare se tutte le pecore stavano bene o se era necessario caricarne qualcuna sui muli, i secondi, invece, avevano il compito di condurre le greggi durante la transumanza, di contarle alla partenza e, anche più volte al giorno, durante il cammino. Nel gregge, invece, un ruolo di particolare importanza era affidato al “manzir”, un montone castrato di più di un anno opportunamente scelto e duramente addestrato, che aveva il compito fondamentale di aiutare il pastore andando davanti al gregge e facendo da apri-strada a tutte le pecore che lo seguivano senza difficoltà. Infine c’erano i cani, che fornivano un altro importantissimo aiuto al pastore. Fra questi si distinguevano: “i cani da guardia”, tipicamente cani di razza Pastore Maremmano Abruzzese, che avevano il compito di proteggere il gregge, soprattutto durante la sosta notturna, e i cosiddetti “toccatori”, tipicamente cani di razza Pastore Belga, che invece avevano il compito di conduzione del bestiame, ossia avevano il compito di far muovere il gregge in modo compatto da una zona all’altra. Giunti a destinazione dopo tanti giorni di duro cammino greggi e pastori raggiungevano i pascoli loro assegnati e per circa sei mesi venivano ospitati nelle cosiddette “masserie”, grandi aziende agricole che disponevano di stalle per gli animali, alloggi (molto spartani) per i pastori e depositi per l’immagazzinaggio dei prodotti della pastorizia. Il “rito” della transumanza si è ripetuto per secoli, ogni anno, per due volte all’anno, ma con il passare degli anni l’attività armentizia transumante è andata progressivamente diminuendo fino alla quasi totale estinzione nei giorni nostri. Al giorno d’oggi in Abruzzo sono sempre meno le persone che decidono di intraprendere questo tipo di lavoro e le piccole realtà allevatrici sono sempre di meno e per lo più concentrate nelle zone di montagna. I pochi allevatori rimasti sono quelli che hanno iniziato tanti anni fa proseguendo l’attività dei propri padri. Stanno invece prendendo sempre più piede le grandi aziende bioagrituristiche le quali allevano anche un gran numero di capi di bestiame ricorrendo quasi esclusivamente alla manodopera straniera. Quindi, attualmente, sono soprattutto questi ultimi che pascolano le greggi e si occupano degli animali.
La transumanza vera e propria, intesa come spostamento delle greggi dai pascoli estivi di montagna a quelli invernali delle pianure pugliesi, non avviene praticamente quasi più, se non esclusivamente ad opera di pochissimi medi/grandi allevatori che, ovviamente, non spostano più le greggi a piedi ma utilizzando grandi e comodi camion. In tutti gli altri casi la transumanza abruzzese attuale somiglia sempre più ad una transumanza di tipo verticale dove, nella bella stagione, i pochi pastori stranieri che ancora fanno questo mestiere spostano a piedi le greggi in zone di alta montagna. Qui i pastori utilizzano gli stazzi di cui abbiamo parlato all’inizio di questo scritto e vi trascorrono i mesi estivi nella totale solitudine e lontani dalla vita cittadina; soli con le loro pecore e i loro cani. Ogni giorno, al mattino presto viene fatta la mungitura dopodiché il gregge viene accompagnato al pascolo. Alla sera il gregge torna allo stazzo dove viene fatta una seconda mungitura. Di notte il gregge non viene mai lasciato a pascolare all’aperto ma viene sempre chiuso in un recinto sorvegliato dai cani. In questo modo si riesce ad assicurare al gregge una adeguata protezione scoraggiando la predazione da parte di lupi ed orsi che raramente azzardano una aggressione. © Ercole Di Berardino - esploramonti.it - All rights reserved E' vietata la riproduzione di testi ed immagini senza l'autorizzazione scritta da parte dell'autore. ![]() L'Abruzzo, si sa, è per tradizione terra di pastori e di transumanza. L'allevamento ovino ha svolto un ruolo determinante per l'economia della popolazioni abruzzesi lasciando un'impronta duratura su diversi aspetti dello sviluppo storico, sociale e culturale della regione. In Abruzzo, quando si parla di pastorizia non si può fare a meno di parlare di uno di quei prodotti dell'antica tradizione alimentare abruzzese che, probabilmente più di altri, sono stati legati a questa attività. Sto parlando della "micischia" o "vicischia" che, insieme al latte e al formaggio, per secoli ha rappresentato la principale fonte di alimentazione di generazioni e generazioni di pastori. La "micischia" non è altro che carne secca, di pecora o più raramente di capra, ottenuta in seguito ad un processo di sgrassatura, disossatura, salatura, aromatizzazione ed essiccazione all'aria in modo assolutamente naturale, senza nessun procedimento di cottura. Il prodotto così ottenuto rispondeva perfettamente alle esigenze dei pastori transumanti di una volta che nel loro peregrinare al seguito delle greggi erano costretti a ridurre e ad alleggerire al minimo il carico da portarsi quotidianamente sulle spalle per soddisfare le proprie esigenze. Questa carne, dall'aspetto compatto ed essenziale, ed un sapore piuttosto forte, ha delle buone caratteristiche nutrizionali date dalla bassa quantità di grassi e dall'alto contenuto proteico. La preparazione della "micischia" prevedeva la sgrassatura e la disossatura dell'animale intero, ossia mantenuto in un unico pezzo. Successivamente questo veniva aperto e disteso e si procedeva alle fasi della salatura e della aromatizzazione con pepe, peperoncino, rosmarino ed altre erbe aromatiche. Seguiva poi la fase dell'essiccazione che consisteva nell'appendere la carne in locali adeguatamente areati. Una volta essiccata la carne veniva infine tagliata in lunghe strisce sottili che ne rendevano più facile il porzionamento ed il consumo. Purtroppo a partire dagli anni 60' dello scorso secolo, con il venir meno della pastorizia transumante, la produzione e il consumo di questa carne ha subito un notevole declino ed attualmente la sua produzione è rimasta circoscritto a qualche piccolo paese di montagna in cui si è voluta mantenere viva la tradizione della "micischia". |
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Gennaio 2021
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