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Il volto umano del Gran Sasso e della Majella.

23/4/2015

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LA LEGGENDA DELLA GIGANTESCA MAIA

Il Gran Sasso d’ Italia e la Maiella, con le loro bellezze imponenti e maestose, da sempre sono stati il simbolo e il riferimento dell’intero Abruzzo. Questi attraenti sistemi montuosi  sono avvolti da una miriade infinita di miti, leggende e misteri, scavati nell’abisso del tempo e legati, assai spesso, a tradizioni, riti e culti pagani.

La  “Maiella Madre”, la montagna materna degli abruzzesi, custode di paesaggi maestosi di rara bellezza, è stata culla di civiltà e culture antichissime, di cui restano ancora oggi innumerevoli vestigia e testimonianze; assai incerta, però, è l’origine del nome.

Assai suggestiva è la relazione etimologica di natura popolare legata al culto della dea Maia. Secondo questa derivazione, coerente alla primordiale sacralità dei monti, la Maiella, con i suoi meandri magici e misteriosi, è la montagna sacra a Maia. Nel mito e nelle leggende del popolo indiano la dea Maja simboleggiava il principio creatore e la virtù produttiva. La mitologia classica ci fa anche sapere che la gigantesca Maia, fiorente fanciulla dalle stupende trecce bionde, era la maggiore e la più bella delle sette Pleiadi, figlie di Atlante e di Pleione, figlia, quest’ultima, di Oceano. Maia fu amata da Zeus in una grotta del monte Cillene in Arcadia e da questa relazione nacque Ermete, unico figlio della dea.

Fra le tante leggende, che legano la Maiella al culto della dea Maia la più toccante è  quella che racconta  che la gigantesca Maia fuggì dalla Frigia, per portare in salvo l’unico figlio, un gigante stupendo, ferito gravemente in una battaglia e inseguito dal nemico. Con una zattera sdrucita attraversò il mare e riuscì ad approdare nei pressi del porto dell’antica città  di Ortona - “Orton”-  dopo un tragico naufragio. Qui, temendo di essere raggiunta dagli inseguitori,  prese in braccio il gigante ferito  e continuò la sua fuga attraverso forre selvagge ed impervie giogaie, scalando il Gran Sasso, dove una caverna, nell’aspra roccia, offrì  un rifugio ai due fuggitivi. Nell’antro rupestre la diva Maia cercò, e sperò, di mantenere in vita l’adorato figliuolo con il suo amore materno, ma dopo qualche tempo il giovane morì lasciando la ninfa in un’angoscia infinita. Per vari giorni pianse disperatamente accanto al corpo del figlio e, successivamente, lo seppellì su una vetta del monte superbo.

Ancora oggi, a chiunque osservi il Gran Sasso, da levante verso ponente, appare chiaramente la sepoltura del giovane: infatti, la Vetta Orientale del Corno Grande, in uno scenario maestoso e incantevole, incarna le sembianze di un gigantesco volto umano assopito nel riposo eterno; conosciuto sin dall’antichità come “Il gigante che dorme”, il “ciclope di pietra” si staglia nel cielo, nel superbo dominio di un paesaggio grandioso. In virtù di un magico incanto, in un seducente miracolo della natura, il “gigante di pietra”, osservato da un’angolazione leggermente diversa, si trasforma in una leggiadra e prosperosa fanciulla supina dalle chiome fluenti, chiamata, oggi, “la bella addormentata” e dagli antichi “ la bella dormiente”. Nei silenzi magici e divini delle aeree cime  del Gran Sasso, l’ ”Olimpo d’Abruzzo”, in uno scenario grandioso e fantastico, la ninfa Maia e l’adorato figlio si “fondono” in uno straordinario connubio affascinante e suggestivo, di colossale magnificenza; senza più distinguersi, realtà e fantasia si amalgamano in una simbiosi incantevole che non ha eguali altrove.

Dopo la morte del gigante, Maia non ebbe più pace. Sconvolta, in preda alla disperazione, cominciò a vagare sui monti e neanche i suoi congiunti più cari riuscirono a frenarne il  pianto disperato. Le stille di rugiada e i cristalli di brina, che, copiosi,  rivestono d’argento e di luce i morbidi prati dei nostri monti, nell’immaginazione popolare non rappresentano altro che le lacrime versate dalla ninfa. Il cordoglio e l’angoscia furono talmente grandi, da stringere il cuore della povera madre, fino a farla morire. I fedeli e i parenti della dea, con cortei imponenti, raggiunsero Maia sull’erta giogaia, portando vesti ricche di ori e di gemme, ghirlande di fiori e di erbe aromatiche, vasi d’oro e d’argento, e, dopo averla adornata con i loro preziosissimi doni, la seppellirono sulla maestosa montagna di fronte al Gran Sasso, che, da quel giorno, in sua memoria, fu chiamata Maiella. Il nome “Monte Amaro”, dato alla cima più alta, sembra voler dare risalto al dolore di Maia, a testimonianza di un affetto e di un amore  senza confini. La ricchissima flora della Maiella, con il tripudio dei fiori dai mille colori, rappresenta il prezioso tesoro funebre della diva stupenda. 

Nell’immensa giogaia maiellana, la struttura orografica di “Cima delle Murelle”, osservata dal Monte Acquaviva, si tramuta nel volto disfatto di una donna distrutta, supina. L’aspetto selvaggio e severo del paesaggio, “improntato d’una calma tristezza”, risulta grandioso, suggestivo e pittoresco. 

Il lago di “Femmina morta” e l’omonima valle, poco distanti dalla vetta della superba montagna non possono non ricordare la dolorosa vicenda materna della gigantesca ninfa. Ancora oggi  il fragore delle valanghe nei burroni, lo scroscio delle cascate negli orridi, il frastuono delle frane negli abissi, la furia della tempesta turbinosa, l’ululato del vento ed il fremito dei boschi e delle foreste evocano nell’immaginazione popolare i lamenti della diva Maia, che geme disperata per la morte immatura dell’unico figlio.

Tratto da "La leggenda della gigantesca Maia. Fra miti, realtà, misteri e magie, il volto umano del Gran Sasso e della Maiella", di Camillo Berardi.




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